 |
Il 5 gennaio 1954 nasce la RAI. E l’Italia trova l’unità linguistica.
Lo storico Sabatini, presidente dell’Accademia della Crusca: nessun dubbio, il video ha favorito il superamento dei dialetti.
Ammettiamolo. Oggi si tende soprattutto a considerare le conseguenze nefaste dello spettacolo televisivo leggero nel costume e nella cultura degli italiani,ma si dimentica un fatto indiscutibile: la televisione ha contribuito in maniera determinante alla nostra unità. Specie quella linguistica. Francesco Sabatini, storico della lingua, professore all’Università La Sapienza di Roma e presidente dell’Accademia della Crusca vuole chiarire subito un aspetto che chiama «ideologico»: «I giudizi sull’effetto che la televisione ha avuto nel corso della lingua italiana sono di due tipi, opposti: c’è chi ha visto o vede la tv come il toccasana delle nostre difficoltà linguistiche e chi la vede come fonte di tutti i mali. Stranamente queste due tendenze sono trasversali agli schieramenti politici di destra e di sinistra e ciò accade perché si tratta per lo più di giudizi semplicemente superficiali». Per evitare la superficialità dei più, bisogna valutare aspetti storici, sociologici e strettamente strutturali. «Innanzitutto — avverte Sabatini — sul piano della storia linguistica va considerato che all’inizio degli anni Cinquanta nella nostra società l’italofonia era ancora molto bassa: dati attendibili indicavano che il 63 per cento degli italiani era ancora dialettofono, quindi quasi incapace di parlare la lingua e tutto sommato di comprenderla. Ciò dipendeva certo dalla scolarizzazione insufficiente: l’obbligo scolastico era ancora limitato, fino al ’62, alle elementari. L’avvento della televisione, che rinforzava di molto l’effetto della radio, del cinema e dei dischi, superando la barriera dell’alfabetizzazione, introdusse un agente nuovo di diffusione capillare e duratura della lingua italiana». Insomma, in venti-trent’anni la televisione è riuscita a realizzare un sogno che già Dante Alighieri aveva cullato: «L’effetto della Rai — ricorda il professor Sabatini—fu massiccio e molto rapido. «Infatti, alla fine degli anni Ottanta, cioè prima del boom della scolarizzazione prolungata, l’italofonia è cresciuta fortemente, raggiungendo l’80 per cento. Non tutto — per carità! — si deve alla televisione, ma questa, operando anche nelle aree sociali più emarginate, è stata il fattore principale. Dopo secoli di attesa, in tre decenni si è raggiunto un traguardo che in altri Paesi era stato raggiunto (anche se gradualmente) due o tre secoli prima. Del resto, chi non ricorda le immagini televisive anni Cinquanta con dei contadini che in una stalla mungono mentre guardano la tv e ascoltano discorsi in lingua italiana?». Era un italiano basico, come scrisse Umberto Eco a proposito della lingua parlata dall’everyman Mike Bongiorno. Un italiano semplificato, privo di congiuntivi e di subordinate. Da qualche anno c’è un revisionismo anche in ambito storico-linguistico che tende a riabilitare il vecchio Mike: «Era indispensabile — dice Sabatini — che il suo italiano fosse semplice e accessibile a tutti. La critica di Eco a Mike Bongiorno era sbagliata. Si può capire la sorpresa dei professori, ma bisogna fare una banalissima considerazione: se davanti ai televisori c’era il 63 per cento di non italofoni, per conquistare quella fascia di popolazione all’uso dell’italiano (fosse anche con intenti propagandistici) non si poteva usare altro italiano che quello. La scelta stilistica di Mike Bongiorno, piacesse o no ai professori, era quel che ci voleva per diffondere l’italiano».
E’ vero, però, che si trattava della diffusione di una competenza passiva della lingua italiana... Competenza diffusa anche in tempi recenti e messa a frutto da alcuni popoli del Mediterraneo, che sorprendentemente si sono scoperti conoscitori dell’italiano appreso in tv. Con una differenza sostanziale: mentre agli inizi anche l’italiano semplificato di Mike Bongiorno era una lingua magari incolore ma formalmente impeccabile, nelle epoche successive è dilagato il parlato da «talk show». Non più un modello ma, come osserva Sabatini, il rispecchiamento di una realtà caotica: «Bisogna distinguere tra uso scritto della lingua, uso parlato e uso trasmesso. La comunicazione attraverso la tv è per lo più di tipo parlato, ma ha alcuni tratti che la avvicinano allo scritto: è quello che chiamo l’italiano trasmesso, che richiede e consente una ponderazione, un controllo della lingua sul piano della correttezza, dell’efficacia e della chiarezza. «Queste qualità devono caratterizzare chi "rappresenta" la tv (conduttori, annunciatori, responsabili) e chi più o meno spesso viene invitato a parlare (soprattutto gli esponenti delle istituzioni). Queste persone hanno una responsabilità linguistica, mentre chi viene intervistato occasionalmente rappresenta solo se stesso, ci piaccia o non ci piaccia il loro italiano. Da una trentina d’anni, però, ha attecchito la tesi dello specchio, secondo la quale tutta la tv è specchio linguistico (e di costume) dell’intera società. Questa tendenza è la negazione di una qualsiasi funzione di guida di chicchessia. Secondo me, invece, l’indicazione di una norma linguistica è un’esigenza ovvia per evitare la disgregazione. I professionisti dovrebbero essere un modello quanto a stile, pronuncia, costruzione sintattica, non perché debbano toscaneggiare, per carità...». Tutt’altro. I modelli cui pensa Sabatini non sono certo esempi di purismo toscaneggiante: «"Quelli della notte" è stato un esempio di ricchezza e di creatività linguistica: niente becerismi, si sentiva il colore regionale, ma c’era un miscuglio ben calibrato di italiano parlato e italiano trasmesso. Oggi in Rai ci sono parecchie trasmissioni linguisticamente interessanti: "La grande storia", "Elisir", "Chi l’ha visto", "Quark", "Gaia", "Report", "Parola mia", alcuni dibattiti ben condotti, come "Ballarò"...». Per andare a stanare i modelli linguistici negativi, bisogna rivolgersi, secondo il presidente della Crusca, alla «produzione quotidiana»: «Telegiornali, commenti a fatti del giorno e simili: la vera professionalità e la capacità di controllo si misurano in queste produzioni, ma purtroppo c’è trascuratezza e sciatteria, uso di stereotipi, storpiature di parole straniere, forestierismi inutili, errori gravi di accento, di prosodia, di lessico. Durante la cronaca di una parata militare, ho sentito parlare per tre volte dello "sfilamento" di un battaglione. Gli sfondoni possono capitare a chiunque, ma tre volte...»
Paolo Di Stefano da www.corriere.it del 28 dicembre 2003
|
|
|
 |