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numero 7 | aprile 2008
Ripartire dal lessico
ALMA edizioni
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L'articolo di questo numero è dedicato all'approccio lessicale e porta la firma di Michael Lewis, insegnante e metodologo, che ne ha posto le basi nell'ormai classico The Lexical Approach del 1993. A questo volume ne sono seguiti altri due, impegnati a mettere la teoria in pratica, Implementing the Lexical Approach (1997) e Teaching Collocation (2000). Un'intensa attività di diffusione del nuovo approccio ha portato Lewis a tenere conferenze in oltre trenta paesi. Fra gli altri suoi numerosi libri, The English Verb, Business English (con Peter Wilberg, 1986 e 1983), Practical Techniques for Language Teaching (con Jimmie Hill, 1990).
L’originale di questo articolo è stato pubblicato in “Babylonia”, 3, 2005, pp. 7-10 (numero dedicato interamente all’approccio lessicale).


Verso una concezione lessicale della lingua.
Una sfida per gli insegnanti

di Michael A. Lewis

Introduzione
Pensi che insegneresti le lingue allo stesso modo se non ti fossi formato come insegnante di lingue? E quante analogie vedi fra le attività che svolgi in classe e ciò che fa “naturalmente” chi è immerso in situazioni che richiedono l’uso della lingua? Sospetto che tu faccia lavorare molto i tuoi studenti sul vocabolario (le “parole nuove”) o sulla grammatica, soprattutto sui “tempi verbali”, e sospetto invece che gli apprendenti “naturali” abbiano a cuore una cosa sola, cioè comprendere e produrre significati. Scopo di questo articolo è sostenere, come suggerisce con forza la moderna ricerca nella linguistica dei corpora, che la pratica di classe deve lasciare il vocabolario e la grammatica per il lessico e un modo nuovo di guardare al testo, con occhi lessicali appunto, perché è proprio dal lessico che si crea il significato. Ma facciamo prima qualche passo indietro.

Perché insegni le lingue nel modo in cui lo fai? Per abitudine? Perché è così che te le hanno insegnate a scuola? Ti limiti a seguire il manuale? Dai ai tuoi studenti regole grammaticali esplicite? Li incoraggi a compilare liste di “parole nuove”? Fai esercizi di trasformazione (“Volgi al passivo”)? Lavori con la lingua “ripulita” dei classici materiali didattici (o sei invece per l’inglese vero, naturale, che si trova per esempio nelle riviste o in Internet)? Un insegnante riflessivo basa il proprio insegnamento su convinzioni più o meno esplicite riguardo alla natura della lingua e dell’apprendimento. Ogni nuova concezione in entrambi gli ambiti dovrebbe riflettersi in quello che poi succede in classe. Questo articolo esaminerà le implicazioni di alcuni recenti cambiamenti nella concezione della natura della lingua e del modo in cui il cervello immagazzina e recupera la lingua. Si suggerirà inoltre che le attività didattiche sopra citate possano in realtà rendere l’apprendimento più difficile, e che dunque sia necessario sostituirle con altre più efficaci. Ma perché questo accada gli insegnanti dovranno prima comprendere perché tali cambiamenti siano desiderabili.

Lo studio del fenomeno del linguaggio (altra cosa rispetto alle singole lingue) è ancora relativamente recente. I primi tentativi furono condotti per lo più sul latino, lingua altamente flessiva. Di conseguenza, almeno in Europa, i linguisti hanno sempre finito con l’attribuire un valore eccessivo a quella che è stata tradizionalmente chiamata “grammatica”, in particolare alle forme del verbo. Fino a venticinque anni fa lo studio della lingua era affidato soprattutto all’intuizione o ha prodotto risultati “scientifici” solo all’apparenza. In effetti una ricerca su basi realmente scientifiche si è resa possibile solo con l’avvento dei corpora computerizzati di lingua naturale.

Va inoltre rilevata l’influenza negativa, specie in ambito statunitense, esercitata dalla tesi chomskiana secondo cui una lingua è l’insieme delle “frasi possibili” in quella lingua. Questa definizione del tutto inadeguata non ha fatto altro che restituire importanza alla grammatica della frase isolata. Gli studi sui corpora elettronici mostrano al contrario che molti fenomeni possibili restano tali o addirittura sono estremamente improbabili (We’ve had our downs and ups; Good morning, Gentlemen and Ladies; Hello, I haven’t seen you for seven and a half months; I like weak tea but powerful coffee) [1]. Una concezione esauriente del linguaggio deve spiegare sia ciò che è possibile sia ciò che, pur forse possibile, è assai improbabile.
Fino a trenta anni fa era opinione comune che la lingua si potesse dividere in “grammatica” e “vocabolario”. Tale distinzione, che sarà molto familiare a gran parte degli insegnanti, conduce a un approccio “riempitivo” (“slot and filler”) alla pratica grammaticale [2]. Anche in questo caso gli studi sui corpora di lingua naturale hanno dimostrato che è un approccio del tutto sbagliato che rende l’apprendimento di una lingua inutilmente difficile (e, si potrebbe aggiungere, particolarmente scoraggiante per molti studenti meno abili).
Vale infine la pena segnalare che la linguistica dei corpora si è prevalentemente esercitata sull’inglese (anche in questo articolo gli esempi sono tutti presi dall’inglese); ma è evidente che i tratti emersi al suo riguardo sono comuni a tutte le lingue. Alcuni anni fa, a Washington, presentando molte delle idee qui sostenute a un pubblico di insegnanti delle lingue più diverse - cinese, farsi, finlandese, coreano, arabo, ebraico e altre ancora ritenute “lontane” dall’inglese - non solo ho registrato consenso, ma c’è stato persino chi ha definito la propria lingua “più lessicale” dell’inglese. Benché gli esempi che porto siano tratti dall’inglese, ritengo che le idee di fondo abbiano una loro validità universale.

Alcuni risultati della ricerca
Che cosa hanno dunque rivelato gli studi sui corpora elettronici di lingua naturale? Ecco alcuni dei risultati più significativi:

1. Poche strutture o “regole” sono totalmente fisse; quasi ogni affermazione possibile sulla strutturazione (patterning) linguistica è di natura tendenziale o probabilistica: ci sono poche certezze. John Sinclair, uno dei padri della linguistica dei corpora, è chiaro al proposito:

Le generalizzazioni grammaticali non poggiano su fondamenta rigide, ma sono l’accumulo di strutture relazionali (patterns) di centinaia di parole individuali e di espressioni. (Sinclair 1991:100)

2. Vocabolario e grammatica non sono categorie separate, ma inestricabilmente connesse. Separarle genera confusione, non chiarezza. Ancora Sinclair:

I dati ora disponibili [al 1990 e adesso confermati (N.d.A.)] gettano seri dubbi sull’opportunità di postulare domini separati per il lessico e la sintassi. (Sinclair 1991:104)

3. La lingua è costituita prevalentemente da stringhe di espressioni prefabbricate (elementi lessicali) dotate di una maggiore o minore possibilità di variazione - on the other hand non ammette l’opposto (grammaticalmente corretto) on this hand, ma richiede on the one hand, che deve inoltre apparire in posizione di antecedente; a week on Thursday può diventare a week on [day], mentre a month/year on Thursday (di nuovo grammaticalmente accettabile) appare del tutto improbabile.

4. Esprimendoci nei termini della distinzione tradizionale “vocabolario/grammatica”, non ci sono strutture predeterminate in cui inserire singole parole, ma è la parola che determina la strutturazione (patterning) circostante, cioè la “grammatica”. Insomma, la lingua naturale funziona in modo esattamente opposto a quello descritto dal classico (e ormai quasi del tutto abbandonato) approccio “riempitivo” ampiamente diffuso una ventina di anni fa.

5. Strutture (patterns) tipiche di certi generi (orali e scritti) di inglese possono essere rare o non presentarsi affatto in altri generi. È una differenza molto più sottile rispetto a quella fra inglese scritto e parlato. La più completa grammatica di una lingua finora pubblicata - la Longman Grammar of Spoken and Written English (LGSWE) - mette a confronto quattro generi: la conversazione, il notiziario, la narrativa e la scrittura accademica. Le sorprese sono molte: le domande sono relativamente rare in ogni forma di inglese scritto; i dieci verbi più comuni (ausiliari esclusi) sono frequentissimi nella conversazione ma estremamente rari nella scrittura accademica, e si presentano in strutture del tutto diverse allo scritto e al parlato; anzi, le strutture tipiche associate a molte se non a quasi tutte le singole parole sono strettamente correlate ai diversi generi. Il dato di fondo è che di “regole” davvero generali ce ne sono pochissime ma che, in compenso, la lingua è costituita di lessico (lexis), cioè di mini-strutture composte da più parole, in misura assai maggiore di quanto finora immaginato. John Sinclair ne aveva già percepito la conseguenza più radicale quasi venti anni fa:

Prove tanto evidenti ci inducono a considerare il principio idiomatico non più secondario rispetto alla grammatica, ma di pari se non superiore importanza nello spiegare il formarsi del significato nel testo. (Sinclair 1991:112)

Il principio idiomatico
Conviene a questo punto esaminare più da vicino il “principio idiomatico”, a volte chiamato anche “idiomaticità”. Innanzitutto non ha quasi niente a che vedere con le tradizionali “espressioni idiomatiche” che si insegnano agli studenti di lingue, cioè quelle frasi fatte, considerate fisse, più o meno colorite, da non prendere alla lettera (vedi i classici It’s raining cats and dogs e He kicked the bucket the other day, che, detto per inciso, non ho mai sentito usare da un madrelingua se non durante discussioni sull’idiomaticità!). Queste locuzioni erano considerate tipiche del parlato, ma rare o assenti nella scrittura accademica. Le si riservava agli studenti avanzati, ma in genere con l’avvertenza di evitarle, dato che un uso anche solo lievemente imperfetto avrebbe potuto suscitare effetti comici o ridicoli.
Un’altra categoria di espressioni fisse prese in considerazione erano i cliché, termine in sé già dispregiativo, per cui anche di essi si sconsigliava l’uso. Ecco che cosa arrivava a dirne nientemeno che George Orwell:

L’invasione della mente da parte delle frasi fatte (lay the foundations, acquire a radical transformation) può essere contrastata solo restando costantemente in guardia, poiché ogni frase del genere anestetizza una parte del cervello.

È interessante notare come lo stesso Orwell, lo ricordo in Teaching Collocation, non sia riuscito a evitare espressioni quali bitter winter, carried on as best as they could, the outside world, perfino in un’opera così originale come La fattoria degli animali [3]. Lungi dall’anestetizzare il cervello, il ricorso a elementi lessicali prefabbricati facilita la comprensione del lettore/ascoltatore, permettendogli di concentrarsi più agevolmente sulla nuova informazione contenuta nel messaggio.

Si è già visto che per Sinclair “il principio idiomatico è almeno altrettanto importante della grammatica”. A mio parere dovremmo adesso accettare l’idea che questo principio è quasi certamente più importante della grammatica nella produzione del significato. Tocchiamo qui il punto decisivo: la lingua serve essenzialmente a creare e scambiare significati; non parliamo per fare esempi del passato prossimo, non ci formiamo prima una frase in testa per poi “trasformarla” al passivo o volgerla nel cosiddetto “discorso indiretto”. La lingua prodotta durante attività didattiche di questo tipo merita a stento di essere descritta come “lingua”, tanto che alcuni linguisti la definiscono a ragione “comportamento simil-linguistico”. Gli insegnanti che propongono attività del genere dovrebbero valutare attentamente se sono in grado di giustificarne l’utilità ai loro studenti. Io credo di no; ritengo anzi che tali pratiche complichino inutilmente l’apprendimento e siano di fatto un ostacolo per un’acquisizione efficace.

Le classiche frasi idiomatiche
Si può notare en passant che le classiche frasi idiomatiche sono tutt’altro che fisse e che anzi si presentano raramente nella forma riportata nel dizionario; i madrelingua riprendono la forma “base” per variarla impercettibilmente o renderla addirittura quasi irriconoscibile (naturalmente deve restare riconoscibile). Ecco alcuni esempi tratti dal mio corpus personale:

When Diana, Princesse of Wales, walked into a room, all heaven broke lose.
(Daily Telegraph, 29/8/98)

An awful lot of blood has flowed under the bridge.
(Robin Cook, allora ministro degli esteri, spiegando un cambiamento della politica del governo britannico in Kosovo, TV News, 4/4/99)

Sound like the wag the dog syndrome to me.
(Alex Thompson, intervista a Channel 4 News, 6/12/98)

He’s a man of a couple of medium-sized ideas.
(Un commentatore politico dopo l’elezione di G.W. Bush, 12/00) [4]

Esempi non solo arguti e divertenti, ma anche in vari sensi assai rivelatori. In primo luogo smentiscono le parole di Orwell: “distorcere” un’espressione fissa aiuta chi parla/scrive a creare significato, ma solo grazie al fatto che sia chi parla/scrive sia chi ascolta/legge conosce la soggiacente espressione “fissa” o presunta tale. In secondo luogo, si vede che non esiste una distinzione netta tra frasi idiomatiche - all hell broke loose, the tail is wagging the dog- e collocazioni: a big idea non sarebbe normalmente considerata un’espressione “idiomatica”, ma questo è precisamente quanto hanno mostrato i corpora computerizzati: la lingua che usiamo è in larghissima misura prodotta dalla nostra memoria, si tratti di elementi totalmente prefabbricati o di piccole variazioni su elementi (quasi) fissi; ed è questo un fenomeno che pervade tutta la lingua, il parlare comune, la narrativa, la scrittura accademica.

Implicazioni pedagogiche
Quali sono le implicazioni pedagogiche di tutto ciò? In una formula, occorre che gli insegnanti prestino più attenzione al “vocabolario” - torneremo su questo termine più avanti - e meno alla grammatica tradizionale; come osserva il mio collega di un tempo Jimmie Hill:

Dedicare molto tempo alla grammatica tradizionale dell’inglese lingua seconda condanna gli studenti a restare a un livello intermedio. (Hill 2000: 68)

Se gli insegnanti devono compiere questa necessaria inversione di rotta, bisogna smettere di considerare il “vocabolario” come una collezione di singole “parole nuove” e sviluppare strategie che inducano loro per primi, e poi gli studenti, a guardare i testi con nuovi occhi, attenti al lessico. Domandare agli studenti “ci sono parole che non capite?” non li aiuta affatto. Prima di tutto perché così si evidenzia quello che non sanno, finendo fra l’altro per demotivarli, specialmente i meno abili. In secondo luogo, punto forse più importante, è difficile se non impossibile imparare qualcosa di completamente estraneo; è invece la lingua che già si è “affacciata” alla mente dell’apprendente quella con le maggiori probabilità di essere acquisita - si tratti di elementi riconosciuti ma non ancora impiegati attivamente, oppure di vocaboli ad ampio spettro collocazionale di cui solo una o due semplici collocazioni siano note. Con le parole di Peter Shekan:

Molto spesso la sfida pedagogica non consiste nel proporre qualcosa di completamente nuovo, ma nel rendere accessibile ciò che è solo relativamente nuovo. (Shekan 1998:139)

Una strategia ovvia, in questo senso, è esplorare altre possibilità collocazionali, stimolando gli apprendenti a sviluppare l’abilità di usare parole conosciute solo in parte (un’idea ampiamente sviluppata in Keywords for fluency di George Woolard). Un modo semplice per “entrare” nel testo è prenderne uno o una sua parte e chiedere agli studenti di sottolineare tutti i sostantivi che riescono a trovare. Poi li si mette a cercare le altre parole che secondo loro fanno parte del “blocco” (chunk) che contiene ogni sostantivo precedentemente sottolineato. In base all’età e al livello degli studenti, gli insegnanti potranno costruire un percorso più o meno guidato, per esempio far ricercare prima gli aggettivi che vanno con i sostantivi, poi i verbi che li precedono (i verbi che vengono dopo sono assai meno significativi, come vedremo fra breve), infine ogni altra piccola parola - articoli, preposizioni - che faccia parte del “blocco”. Provate voi stessi a svolgere questa attività; all’inizio non noterete granché, ma con la pratica comincerete a vedere sempre più “blocchi”, e quelli che troverete avranno dimensioni sempre maggiori. (Ciò potrà risultare controintuitivo agli insegnanti che abbiano imparato che scomporre le cose rende più facile impararle; secondo me, al contrario, scomporre è spesso fonte di successivi problemi. Imparare due parole in tempi diversi e poi doverle mettere insieme per formare una frase è ovviamente più difficile che imparare una frase e poi scomporla, processo fra l’altro molto simile a quello seguito da tutti noi quando imparavamo la prima lingua). L’obiettivo è dunque spingere gli apprendenti a vedere, registrare (e forse tradurre, prendendo così di petto la nota questione del “non tradurre parola per parola”) le unità lessicali (chunks) più ampie che riescono a individuare sulla base di parole chiave parzialmente note, cioè l’esatto contrario rispetto al porre al centro dell’attenzione parole nuove isolate.

Aspetto fondamentale, con la pratica si comincerà a tenere insieme le parole grammaticali, come gli articoli e le preposizioni, e i sostantivi portatori di significato; scoprendo così (o cominciando a scoprire) la “grammatica della parola”, ovvero l’elemento centrale della lingua, tutto l’opposto della tradizionale dicotomia vocabolario/grammatica.

Va sottolineato che l’approccio lessicale (ampiamente descritto e discusso in The Lexical Approach e Implementing the Lexical Approach) non disdegna né bandisce la grammatica, ma invita semplicemente gli insegnanti a rivederne la propria concezione; ad abbandonare cioè gli assurdi esercizi di trasformazione, a riequilibrare il sillabo riducendo drasticamente lo spazio riservato alle regole tradizionali - spesso ipergeneralizzazioni fuorvianti - e alla pratica dei cosiddetti tempi, a dare priorità alla “grammatica della parola”, in modo che questa nuova, fondamentale dimensione grammaticale, completamente ignorata nelle analisi consuete e pressoché inesistente nei manuali, acquisti l’importanza che merita.

Se l’insegnante ci riflette, riconoscerà che l’insegnamento tradizionale del vocabolario si concentrava ampiamente sui sostantivi e l’insegnamento tradizionale della grammatica sulla struttura del sintagma verbale. Ora, gli studi sui corpora rivelano che la seconda parola più diffusa in tutti i generi di inglese è l’apparentemente insignificante “of” (circa il 2% di tutti i testi raccolti). Risulta che questa preposizione ha un ruolo centrale nella costruzione dei sintagmi nominali che, nella frase inglese, sono spesso il soggetto grammaticale (di qui l’importanza dei sostantivi che precedono il verbo principale, centrali per la “grammatica della parola” nel sintagma nominale): One of the principal causes of the Second World War; The death of President Kennedy; New members of staff. È impossibile scrivere bene in inglese senza saper usare le espressioni con “of”, ma nei sillabi tradizionali esse non occupano che un minimo spazio (a pint of milk, a bar of chocolate!). (Sempre in Keywords for fluency si trovano molte idee per la pratica di queste espressioni). “Of” è così importante nel sistema dell’inglese che il monumentale LGSWE sopra citato riserva una quarantina di pagine a esaminare le varie strutture che includono questa preposizione. Chi insegna altre lingue si chieda quanto tempo dedica in classe a lavorare sulla struttura del sintagma nominale. È assai probabile che essa sia a stento considerata e che, come per l’inglese, tendano a dominare il sintagma verbale e i sostantivi isolati.
La moderna ricerca linguistica mostra dunque al di là di ogni dubbio che la lingua è molto più “lessicale” - cioè costituita da “blocchi” prefabbricati del tutto o parzialmente fissi - di quanto finora si pensasse; che molte delle presunte strutture utili e/o tipiche care alle grammatiche tradizionali sono rare o inesistenti nella lingua naturale; che altre strutture essenziali per esprimersi correttamente sono rimaste sin qui ignorate. I dati disponibili parlano chiaro. Rimane aperta una grande questione: gli insegnanti cambieranno l’oggetto del loro insegnamento e il loro approccio ai testi? Solo gli insegnanti possono introdurre i necessari cambiamenti in classe. Saranno - sarai - all’altezza della sfida?

Note

[1] Sarebbe come dire, in italiano: “Abbiamo avuto i nostri bassi e alti”, “Signori e Signore, buongiorno”, “Ciao, è un secolo e mezzo che non ci si vede”, “Il caffè mi piace forte, il tè debole” (N.d.T.).
[2] Un modo di concepire e costruire gli esercizi grammaticali in cui singoli vocaboli dal significato fisso sono inseriti in strutture grammaticali altrettanto fisse per così ottenere frasi corrette: per es., “Il treno è arrivato”, “La nave è arrivata”, “Gli amici sono arrivati”, “Le zie sono arrivate” (N.d.T.).
[3] Lewis si riferisce all’inizio del cap. 7 della Fattoria degli animali: “Fu un inverno duro. Ai temporali seguirono nevischio e neve, poi un gelo terribile che non si spezzò fino a febbraio inoltrato. Gli animali portavano avanti come meglio potevano la ricostruzione del mulino, ben sapendo che il mondo esterno teneva gli occhi su di loro e che gli invidiosi esseri umani avrebbero gioito e trionfato se il mulino non fosse stato finito in tempo” (N.d.T.).
[4] In italiano sarebbe come dire: “Quando Diana, principessa del Galles, entrava in una sala, si scatenava il paradiso”, “Ne è passato di sangue sotto i ponti”, “Mi sembra la sindrome del carro e dei buoi” (ma l’espressione idiomatica the tail is wagging the dog, letteralmente “la coda agita il cane”, indica che un elemento secondario acquista più importanza di un elemento centrale), “È un uomo dalle medie vedute” (N.d.T.).

Traduzione di Leonardo Gandi


Riferimenti bibliografici
Biber, D. et al. (1999), Longman Grammar of Spoken and Written English, Longman, London
Hill, J. (2000), Revising priorities: from grammatical failure to collocational success, in: Teaching Collocation
Lewis, M. (1993), The Lexical Approach, LTP, Hove (ora Thomson ELT, Boston)
Lewis, M. (1997), Implementing the Lexical Approach, LTP, Hove (ora Thomson ELT, Boston)
Lewis, M. (a cura di) (2000), Teaching Collocation, LTP, Hove (ora Thomson ELT, Boston)
Sinclair, J. (1991), Corpus, Concordance, Collocation, Oxford University Press, Oxford
Skehan, P. (1998), A Cognitive Approach to Language Learning, Oxford University Press, Oxford
Woolard, G. (2004, 2005), Keywords for Fluency, (Pre-intermediate, Intermediate and Upper Intermediate), Thomson ELT, Boston


Per approfondire, in italiano

Cardona, M. (2004), Il lexical approach nell’insegnamento dell’italiano, “In.IT”, 14, pp. 1-7
Menegazzo, E. (2006), L'approccio lessicale di Lewis e la lingua dello studio, “Itals”, IV-12, pp. 67-89
Serra Borneto, C. (1998), L’approccio lessicale in C’era una volta il metodo (a cura di C. Serra Borneto) Carocci, Roma


“Pro/Contro” l’approccio lessicale

Kryszewska, H. (2003), Why I won’t say good-bye to the Lexical Approach, “Humanising Language Teaching”, 5, 2
Lindstromberg, S. (2003), My good-bye to the Lexical Approach, “Humanising Language Teaching”, 5, 2